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Che "cosa" sono io?

di Alessandro Pagnini

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24 ottobre 2009

Alla domanda del titolo, Che cosa sono io?, Benini ci dice che non possono che rispondere le neuroscienze; ovviamente, se quel «Che cosa» si riferisce alla materia del sentire, del pensare, dell'essere coscienti. Non ci sono mente e coscienza senza cervello, e dunque non ci può essere indagine del mentale che prescinda da una visione materialista e riduzionista di mente-cervello. Benini, illustre neurochirurgo, perfettamente a suo agio con la filosofia (cosa non comune tra gli scienziati), affronta, tra gli altri, alcuni dei problemi cui su queste colonne hanno di recente dato un interessante contributo di discussione Riccardo Viale (23 agosto) e Michele Di Francesco (20 settembre). Per esempio: che le neuroscienze siano necessarie per capire aspetti essenziali e rilevanti del mentale è un fatto (quasi) acquisito, ma sono anche sufficienti? Benini è d'accordo con Di Francesco, e risponde decisamente no. C'è qualcosa che sfugge a una prospettiva in senso stretto materialista: la qualità delle nostre sensazioni, che cosa significhi essere coscienti e autocoscienti, come conciliare la libertà del mio volere (mio, della persona che io sono e so di essere) con la «chiusura causale» di quel che accade a livello elettrico e neurale nel mio cervello. Benini si definisce, à la Colin McGinn, un «misteriano», e ritiene che la scienza non possa rispondere a questioni che riguardano i qualia, la coscienza, il libero arbitrio, anche se i suoi progressi aiutano a definire e circoscrivere sempre meglio quei concetti e quelle questioni. Diffida, per esempio, come Di Francesco, della «neuromania», che vorrebbe risolti o dissolti i problemi, addirittura quelli etici ed estetici, soltanto alla luce di ciò che le neuroscienze spiegano o promettono di spiegare, e chiarisce che il suo riduzionismo (o fisicalismo), a differenza di quel che praticano i teorici del nothing but, non ha pretese metafisiche ed è solo un metodo, sia pure indispensabile. Benini pone anche un altro limite alla scienza: «un meccanismo può essere capito interamente solo da un meccanismo di complessità superiore», per cui le spiegazioni neurofisiologiche del mentale incappano nel «limite dell'autoreferenzialità del cervello che studia se stesso».
Ovviamente faccio torto a Benini isolando dalla sua ampia e originale trattazione soltanto aspetti neppure tanto centrali. Ma ritengo opportuni ulteriori chiarimenti circa i concetti di spiegazione e di riduzione qui in gioco, anche in vista della discussione avviata da Viale e Di Francesco. Che l'attività scientifica miri a produrre spiegazioni è comunemente accettato.
Che tali spiegazioni debbano essere nomologiche, che debbano cioè riferirsi necessariamente a leggi, più che controverso è falso. Così come è falso, cioè non corrispondente a ciò che registriamo in larga parte della pratica scientifica, che tali spiegazioni debbano comportare un impegno ontologico verso qualsiasi tipo di entità postulata. I tipi ideali weberiani, per esempio, servono a spiegare fatti sociologici, ma appunto perché ideali non sono reali nel senso di una consistenza ontologica materiale, né il loro «potere causale» può essere facilmente rappresentato dal tipo di legge causale comune in fisica. Le spiegazioni, oltretutto, hanno una forte componente pragmatica che le relativizza a contesti e a finalità della ricerca in modo da non apparire sempre egualmente soddisfacenti i desiderata posti in situazioni differenti. Il requisito assoluto che Benini sembra chiedere a una spiegazione, che cioè per essere tale deve disporre di un apparato esplicativo di maggiore complessità rispetto a quella dell'explanandum, mi pare risenta del mito, ormai abbandonato dalla scienza, secondo cui una spiegazione del mondo ne è una rappresentazione completa, unica e ultima. Molto più condivisibile, invece, l'accezione che Benini dà di riduzionismo. Il riduzionismo può essere esplicativo od ontologico. Quello esplicativo ci dice semplicemente che la scienza spesso spiega fenomeni macro descrivendo meccanismi micro; quello ontologico è il riduzionismo del nothing but, e postula come esplicativa la sola realtà fisica che sta al livello più basso. Il riduzionismo esplicativo ben si concilia con quel pluralismo che ammette che, per spiegare, si ricorra a meccanismi che non sono fisici e che non per questo sono soprannaturali. Se, per esempio, volessimo spiegare il sistema legale di un certo paese nei termini dei meccanismi che lo fanno funzionare, ci basterebbe invocare entità sociali quali i giudici, i codici, i «casi», la selezione della giuria, le pratiche delle sentenze, o cose del genere. Nessuno direbbe che questa è una spiegazione provvisoria o palliativa in mancanza di una spiegazione più profonda o completa in termini di reazioni fisico-chimiche. E nessuno direbbe che non è scientifica perché non è fisicalista.
Ha dunque ragione Di Francesco a spezzare una lancia per il pluralismo esplicativo. Ma all'accordo su questo pluralismo e naturalismo soft c'è però un'ultima clausola da aggiungere: accanto, dobbiamo anche contemplare e difendere una forma di riduzionismo metodologico che garantisca che tutto quello che accade, anche nelle scienze sociali e umane (perfino nel senso comune), sia in qualche modo ancora sotto l'egida della scienza. Fermarsi a una spiegazione psicologica o sociologica va bene, ma che quella psicologia e quella sociologia siano «scientifiche» deve essere un requisito garantito indipendentemente, contro le forti tendenze antiscientifiche interne a quelle discipline. Ovviamente non c'è il Metodo con la M maiuscola, bensì, come Benini nel suo libro, solo casi esemplari di scienza da indicare. Che basti o no, il compito di salvaguardare il naturalismo dal punto di vista metodologico resta comunque, in questa fase di sua liberalizzazione, un'ultima necessaria difesa della scienza.

  CONTINUA ...»

24 ottobre 2009
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